[FOGGIA] fuori dal ghetto?
Una storia che si ripete, quella che sta andando in scena in queste settimane, e che si snoda attorno all’ormai celebre Grand Ghetto di Rignano Garganico (FG) –
una baraccopoli sorta alla fine degli anni Novanta e abitata
prevalentemente da lavoratori agricoli di origine africana, attualmente
sotto minaccia di sgombero. Anzi, di ‘svuotamento’, secondo gli
equilibrismi linguistici delle istituzioni pugliesi che, dopo anni di
quasi totale silenzio, si stanno attivando con un progetto dal nome e
dai contenuti anch’essi piuttosto funambolici: ‘Capo Free, Ghetto Off’.
Lo
scandalo scatenato oltralpe da un documentario dell’emittente France2,
che denunciava il grave sfruttamento che si cela dietro diversi prodotti
agroalimentari commercializzati da alcune catene di supermercati
francesi, ha senz’altro sortito qualche effetto. E lo stesso si può dire
dei servizi di un altro gigante mediatico come la BBC e delle
iniziative di boicottaggio avvenute in Norvegia e Gran Bretagna. La
domanda potrebbe dunque farsi strada tra i più cinici: alle istituzioni
sta davvero a cuore combattere lo sfruttamento, oppure il loro obiettivo
principale è quello di salvaguardare l’immagine della regione e delle
imprese locali nel mondo?
Stando alle dichiarazioni della giunta regionale, quello da poco approvato è un piano di azione sperimentale per un’accoglienza dignitosa e il lavoro regolare dei migranti in agricoltura
che prevede, tra l’altro, l’allestimento di ben cinque tendopoli della
Protezione civile entro il primo luglio, per un totale di 1250 posti
disponibili fino al 30 settembre. I fondi (circa un milione e
trecentomila euro, a giudicare dalla delibera dello scorso 2 aprile –
che però non dà indicazioni molto chiare a riguardo) saranno
probabilmente stornati da quelli precedentemente utilizzati per la
fornitura di acqua e bagni chimici e per il presidio sanitario di
Emergency (in questi anni, una volta alla settimana, un solo
poliambulatorio mobile ha fornito cure di base a un insediamento in
continua espansione, che nel picco della stagione ospita fino a 1500
persone). A quanto sembra, solo tre dei cinque siti sono stati finora
individuati: l’area servizi dell’ex-aeroporto militare di Amendola; un
sito in località Vulgano; il terreno adiacente all’albergo diffuso che
si trova nel comune di San Severo. Eppure, finora, non c’è l’ombra di
una tenda.
L’albergo diffuso, appunto. Un precedente esperimento del governo regionale a marchio SEL, del 2006: progetto
sperimentale di prima accoglienza per cittadini stranieri immigrati
impiegati come lavoratori agricoli stagionali nelle zone degli ambiti
territoriali di Foggia, San Severo e Cerignola. Una
specie di campo di lavoro, in regime di apartheid, nel nulla della
campagna: regole ferree, ospiti vietati (a meno che non si tratti del
coniuge), orari di ingresso e uscita, retta giornaliera di 5 euro, solo
immigrati regolari. L’esperimento non ha funzionato. Gli alberghi
diffusi sono rimasti semideserti. Che cosa è cambiato da allora?
Da qualche settimana è attiva una task force
incaricata di rendere operativa la decisione della regione. Lo scorso
mese l’assessore alle Politiche giovanili, Trasparenza e Legalità,
Guglielmo Minervini, si è personalmente recato al Grand Ghetto
per comunicare agli abitanti la decisione del governo regionale.
L’accoglienza, com’è facile immaginare, non è stata delle più calorose.
Nel
ghetto l’atmosfera è tutt’altro che serena. C’è chi è arrivato da poco
in Italia, magari espulso dalle strutture di ‘accoglienza’ che sono
state messe in piedi per far fronte alla cosiddetta Emergenza Nord
Africa del 2011. C’è chi ha perso il lavoro e quindi la casa. C’è chi
non si può più permettere di vivere in città, soprattutto al Nord. C’è
chi nel ghetto ci abita da decenni, stagionalmente o non. E c’è anchechi,
servendosi degli intricati meccanismi dell’economia informale che
inevitabilmente si è sviluppata in un posto tanto isolato, ricava
guadagni dall’erogazione di servizi di ristorazione, trasporto, sesso a
pagamento, intermediazione di manodopera. Inutile dire che costoro non
sono contenti di perdere la propria fonte di sostentamento e i propri
legami locali. Né hanno perso l’occasione di far sentire la propria voce
e di esporre il proprio punto di vista – tramite petizioni, sui media,
in prefettura.
Una
baraccopoli lontana chilometri da ogni centro abitato non è certo un
luogo dove si vive piacevolmente, e se qualcuno lucra su questa
situazione non c’è proprio di che stupirsi. Certo i loro guadagni sono
il frutto di un perverso e complesso meccanismo di sfruttamento e di
frammentazione sociale. La dinamica dello sfruttamento rilancia se
stessa lungo tutta la filiera: al vertice sta lo strapotere della grande
distribuzione organizzata (GDO) e cioè di poche aziende leader (in
definitiva sono sette) che operano in regime di oligopolio. Non solo
fissano quantità e prezzi dei prodotti loro necessari, ma, a produzione
già iniziata ed in base alle esigenze del momento, decidono di cambiare
le carte in tavola. L’enorme offerta di prodotti, a cui le aziende della
GDO possono attingere, consente loro di tenere sotto scacco le imprese
fornitrici, che a loro volta si rifanno sui produttori. Il gioco al
ribasso applicato sui prezzi ricade inevitabilmente sull’ultimo anello
della catena, i lavoratori. La filiera è in realtà ben più complessa e
caratterizzata da un’elevata frammentazione delle fasi produttive che
rende estremamente difficile – in una struttura a scatole cinesi –
identificare i responsabili. Allo stesso tempo i produttori si
trincerano dietro il fatto di subire i dettami della GDO per
giustificare paghe infime (fino a 2,70 euro l’ora), l’impiego di
manodopera irregolare ed il ricorso ai caporali che rappresentano
l’ultima articolazione, perfettamente funzionale e integrata, della
filiera.
Adesso
come in passato le istituzioni pugliesi – e non solo loro – inseguono
lo spettro del caporalato – criminalizzato con una legge del 2011. E
minimizzano le responsabilità di chi se ne serve per profitto e lo usa
come strumento di controllo di una manodopera resa docile dal bisogno e
da un diffuso clima di intimidazione (a cui ovviamente contribuiscono le
attuali leggi sull’immigrazione).
Ma
nemmeno quelli che accettano paghe da fame, quelli che lavorano spesso a
cottimo, saltuariamente e senza alcuna garanzia, quelli che spendono i
loro soldi nel ghetto per pagare servizi di cui non possono fare a meno
sembrano tutti convinti che andarsene sia un bene. Soprattutto se
l’alternativa è una tendopoli, anch’essa in mezzo al nulla. Sono
spaventati e confusi, si chiedono come faranno a trovare nuovi ingaggi o
come potranno raggiungere i campi dove lavorano con la speranza di
guadagnare abbastanza per iniziare altrove.
Dall’altra
parte del progetto regionale di attivare un sistema di trasporti si sa
poco. La delibera parla di un’operazione, anch’essa ‘sperimentale’,per
l’inclusione sociale, per l’inserimento lavorativo e il trasporto dei
lavoratori, con lo scopo di garantire accoglienza temporanea presso le
aziende agricole e la mobilità dei lavoratori stagionali, per impedire
il controllo dei caporali.
Il
modello scelto dalla Regione Puglia ricorda pericolosamente quello di
un altro fallimentare ‘esperimento’. Alla rivolta di Rosarno del gennaio
2010 il governo centrale rispose proprio con l’allestimento di una
tendopoli, sbandierata sui media come esempio di dignitosa accoglienza
dei lavoratori stagionali. La tendopoli si trasformò in baraccopoli.
Venne smantellata e sostituita con una nuova tendopoli. Oggi la seconda
tendopoli è un altro ghetto dove nemmeno luce e acqua sono garantite. E
vicino alle tende sono risorte le baracche. Che cosa fa pensare agli
amministratori pugliesi che nella loro regione le cose andranno
diversamente? Non è che da un ghetto ne nasceranno cinque?
Sembra
che in Italia si sia ormai consolidata la prassi di utilizzare
dispendiose soluzioni emergenziali (le tendopoli usate per l’accoglienza
dei lavoratori stagionali sono identiche a quelle usate per far fronte a
disastri ambientali come il terremoto dell’Aquila o dell’Emilia) in
situazioni nient’affatto contingenti ma strutturali, qual è appunto
quella del lavoro agricolo stagionale. La mobilitazione del complesso
militare-umanitario, che per qualcuno costituisce una potente macchina
da soldi, non avviene solo nelle zone di raccolta del Sud Italia. Basti
pensare a Saluzzo (CN), dove già dall’anno scorso, ma solo per la
stagione di raccolta, sono a disposizione dei lavoratori regolarmente
assunti diversi campi container, in cui vigono regole del tutto simili a
quelle degli alberghi diffusi. Quest’anno ha visto la luce una nuova
tendopoli, gestita dalla Caritas e pensata come alternativa alla
baraccopoli formatasi nel corso degli anni al Foro Boario. Ma in fin dei
conti dove sta la differenza tra un ghetto e una tendopoli? Non sono
forse entrambe zone di contenimento di una forza lavoro in eccesso,
utilizzata alla bisogna e scaricata quando non serve più? E le nuove
tendopoli serviranno davvero ai lavoratori che vivono nei vari ghetti
della Capitanata, e che peraltro non sembrano particolarmente propensi a
trasferirvisi? Non saranno piuttosto la dimora di coloro che continuano
ad arrivare in Italia dall’inizio dell’operazione Mare Nostrum (anch’essa militare-umanitaria)?
Il
settore agroindustriale è da anni un laboratorio politico e sociale
dove si sperimentano
condizioni lavorative e di vita tra le più dure e
degradanti: lavoro irregolare, cottimo (che nella provincia di Lecce è
stato addirittura regolarizzato grazie alla Cgil), emarginazione
socio-abitativa, esclusione sistematica dei lavoratori, quasi tutti
stranieri, dai servizi di assistenza (sanitaria, legale ecc.). Le
istituzioni, insieme al terzo settore, sembrano convinte di poter
cambiare le cose appiattendo il dibattito pubblico sulla questione
abitativa (declinata in termini di decoro o di emergenza sanitaria). È
l’ennesimo tentativo di spostare l’asse del discorso sulla questione
umanitaria e di marginalizzare il tema lavorativo. Come se lo
sfruttamento dei lavoratori fosse conseguenza di un certo modo di
abitare e non viceversa. Come se il vero problema fosse il Grand Ghetto
di Rignano. Come se quell’insediamento abusivo, che in realtà è solo il
più famoso di una lunga serie, fosse l’unico nella provincia di Foggia e
in Italia. Come se eliminarlo fosse sufficiente per abbattere un
sistema di sfruttamento che regge l’intero comparto agricolo italiano.
La
Regione Puglia, si obietterà, promette misure per l’eliminazione del
caporalato e l’emersione del lavoro irregolare: liste di prenotazione
per l’assunzione diretta da parte delle aziende, incentivi a chi assume
regolarmente per almeno 21 giorni, marchi di eticità. Tutte cose che
vengono proposte come soluzioni innovative, ma che in realtà esistono,
sulla carta, già dl 2006. La stessa domanda di prima si ripresenta quasi
identica: nel modo di vedere dell’amministrazione Vendola, che cosa
farebbe sì che soluzioni rivelatesi fallimentari inizino per incanto ad
avere effetti positivi contro lo sfruttamento? E perché premiare i
datori di lavoro che mettono i loro dipendenti in regola?
Nell’attuazione di politiche neo-liberali neanche troppo mascherate, la
lunga e oscura filiera dello sfruttamento non viene mai messa in
discussione.
Ciò
che sta succedendo intorno e nel ghetto di Rignano Garganico è
emblematico di ciò che è già accaduto e accade altrove. Si tratta
infatti di un tentativo, per quanto maldestro, di una messa a sistema
dell’organizzazione del lavoro agricolo e dei flussi migratori rispetto
alle esigenze dei grandi capitali. Le tendopoli e i campi-container, in
quest’ottica, sono veicoli ideali per la massimizzazione del profitto.
Là i lavoratori stranieri vanno a formare una manodopera a bassissimo
costo, sia in termini produttivi che riproduttivi, e sulle loro spalle
si lucra anche quando non producono, attraverso i dispositivi umanitari.
È assolutamente necessario e doveroso condannare e opporsi a operazioni
come quella ideata dal governo pugliese, un’operazione che non affronta
il problema e avvalla in modo pericoloso pratiche e politiche che
producono ulteriore marginalizzazione, sfruttamento e criminalizzazione.
Rete campagne in lotta