contenere l'emergenza sbarchi successiva al conflitto libico. Ma questo come altri sorgono proprio nei luoghi in cui la manodopera per l'agricoltura è più richiesta
di Paola De Pascalis*
ATTUALITA'. Nel tentare di ripercorrere gli eventi relativi alla nascita ed ai successivi sviluppi del Centro di Manduria, è necessario assumere come cifra dell’intera vicenda la confusione che si è registrata sin dall’inizio intorno alla natura del Campo, nonché alle dinamiche sottese allo stesso e come tutto ciò si ripercuotesse sui migranti presenti, alimentando negli stessi un diffuso senso di smarrimento.
Una confusione data non soltanto da una martellante campagna mediatica e politica incentrata sul tema dell’invasione. Ha giocato un ruolo decisivo, nel delineare tale clima, un trattamento istituzionale della questione segnato da un’estrema porosità dei confini tra incapacità e non volontà di governare il fenomeno. Un fenomeno, va sottolineato, le cui dimensioni sono state decisamente ridotte rispetto a quelle paventate dal Governo, che parlava dell’arrivo di 350.000 persone, al fine, non ultimo, di alimentare la paura “dell’invasione” e rispetto a quelle realmente conosciute in altre passate emergenze umanitarie affrontate dall’Italia (come nel caso della guerra in Kosovo).
La stessa questione dello statuto giuridico da attribuire ai cittadini tunisini sbarcati sulle nostre coste è stata pervasa dall’incertezza. Se infatti i primi arrivi erano stati gestiti attraverso il trasferimento nei CARA (Centri per Richiedenti Asilo), nel momento in cui si è registrato un aumento di sbarchi, si è proceduto, nell’arco di due giorni, alla costruzione a Manduria di questa struttura gigantesca, destinata ad accogliere fino a 3.000 migranti. Una decisione presa in aperto spregio delle norme esistenti, della legislazione vigente, di quanto emerso dalle conferenze stato-regioni e dalla concertazione con gli enti locali.
L’ambigua natura giuridica del centro (CIE? CARA? CDA?) ha generato una ridda di voci e la mobilitazione di amministratori ed attori politici locali, nel quadro di una concitazione e di un disordine notevoli. Non deve pertanto stupire che, ad un certo punto, il Ministero dell’interno abbia emanato la Circolare n. prot. 1305 del 1.4.2011, cancellando di fatto la Circolare “Amato” ed impedendo l’accesso nei CIE e nei “centri di accoglienza variamente denominati” a soggetti diversi da organismi pubblici ed internazionali come OIM, CRI, CARITAS. Ciò evidentemente ha comportato l’impenetrabilità di questi centri e l’evidente impossibilità di un rigoroso controllo del rispetto dei diritti di informazione legale e di difesa. D’altra parte, in poco tempo, Manduria ed Oria si son trasformate in un CIE a cielo aperto, con un dispiegamento ingente di forze dell’ordine nei paesi, presso le stazioni, lungo le vie che portavano dal campo alle città e nei campi limitrofi (con l’utilizzo anche della forestale a cavallo!).
Presso il campo di Manduria è stato quindi inibito l’accesso a parlamentari, giornalisti e associazioni di tutela. Queste ultime, in realtà, sin da principio non hanno avuto accesso all’interno del campo, nonostante, come nel caso di Finis Terrae, avessero presentato regolare richiesta in Prefettura sin dai primi giorni di apertura dello stesso. Richiesta rimasta totalmente disattesa e priva di riscontro.
Nel frattempo, il basso profilo tenuto dalle forze dell’ordine e il carattere in linea di massima fluido del campo ha fatto sì che i tunisini presenti (formalmente stimati in 2000 presenze) potessero entrare ed uscire dalla struttura e questo ha permesso alle associazioni di intercettare i migranti fuori dal campo e di fornire loro tutte le informazioni di carattere legale e socio-sanitario.
La stesura di un volantino in arabo, contente tutte le informazioni di orientamento legale e l’intervento di un team formato da nostro mediatore linguistico-culturale, un operatore legale ed un avvocato, ci ha permesso, come associazione, di intervenire diffusamente, promuovendo assemblee spontanee di migranti, nel tentativo di colmare la totale mancanza di informazioni che aveva generato tra di essi un forte senso di smarrimento. Disinformazione e smarrimento non potevano che produrre clandestinità: non pochi sono stati coloro che, in assenza di qualunque orientamento legale, hanno deciso di lasciare la cittadina pugliese per salire su un treno, con il risultato di esporsi al rischio concreto di un’espulsione (come in effetti per alcuni di essi è stato).
Parallelamente, il campo è diventato in breve tempo il teatro di passioni e manifestazioni: dai presidi di protesta alle ronde impegnate in una grottesca e disgustosa “caccia al tunisino”, come ampiamente riportato dai mass-media nazionali, passando per l’attivismo di gruppuscoli fascisti che, alla stazione di Oria, impedendo ai tunisini intenzionati ad allontanarsi di salire sui treni, si dimostravano zelanti adepti della “lotta all’invasore” che altri predicavano dagli schermi, dalle testate dei giornali e dalle alte cariche del Governo.
Finis Terrae e le altre associazioni antirazziste presenti a Manduria hanno così avviato un intenso lavoro informativo attraverso numerose assemblee informali e momenti di confronto con i tunisini, aprendo spazi di mediazione e trattative serrate anche con le autorità (soprattutto Questura e Prefettura) ed attraverso i quali si è spesso impedito, soprattutto nei pressi della stazione, che la situazione degenerasse in episodi di repressione violenta a causa delle comprensibili tensioni a cui sono stati sottoposti i migranti, ai quali di fatto veniva impedito di salire sui treni e di raggiungere l’unica cosa che essi realmente desiderassero: la libertà.
Tutto questo avviene, quindi, in un clima particolarmente teso: il 2 aprile 2011, dopo settimane di stallo ed in seguito ad una manifestazione antirazzista, centinaia di migranti forzano i cancelli ed escono in massa dal campo al grido di “Liberté!”. A partire dal giorno successivo, prende corpo e cresce l’iniziativa dei migranti: iniziano infatti i sit in di protesta per denunciare l’assenza di cure sanitarie e di informazioni, le condizioni del campo e il fatto che molti di essi non sono ancora stati messi in grado di presentare regolare richiesta d’asilo. I tunisini escono dal campo con masserizie e cuscini, dormono all’aperto e discutono sotto lo sguardo delle forze dell’ordine, che mantengono un atteggiamento di non repressione. È in questo contesto che giunge la notizia della promulgazione del decreto per l’emissione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Inizia così una seconda fase, fatta di assemblee per socializzare le informazioni relative alle modalità richieste dal decreto, alle opportunità offerte dal permesso di soggiorno e, più in generale, di orientamento socio-sanitario. Si tenta di rispondere agli innumerevoli interrogativi e bisogni espressi dai migranti sia rispetto alla loro condizione sia rispetto alle possibilità di raggiungere le loro mete migratorie. Si tratta in larga parte di uomini giovani, spinti a migrare da motivi spesso confusi e poco delineati: per molti di essi la partenza è stata dettata dal clima di instabilità che ha travolto la madrepatria. Alcuni, spaventati dalla situazione in cui si trovano una volta arrivati in Italia, desiderano tornare nel loro paese d’origine. Il lavoro informativo si svolge in modo frenetico e intenso.
Contemporaneamente, in contrapposizione con quanto avvenuto nei primi giorni, si assiste alla discesa in campo di uno spontaneo tessuto sociale e civile, solidale ed antirazzista: i capannelli di discussione si alternano e si mescolano con momenti ludici, di aggregazione e di conoscenza. I pugliesi portano al campo beni di prima necessità, palloni per giocare a calcio, musica popolare e, soprattutto, attivano - con le associazioni locali, gli enti di tutela, cittadini e diversi giornalisti (locali e nazionali) - un insieme di dinamiche che hanno contribuito a scongiurare fenomeni di repressione e a fare di Manduria una struttura aperta, a differenza di altre realtà simili sparse sul territorio nazionale, nonostante l’alto grado di militarizzazione della zona.
In tutto ciò non può non registrarsi l’assenza rumorosa della Chiesa, nelle sue svariate forme, sia di interventi e solidarietà da parte delle singole parrocchie locali in quanto tali, sia nella sua massima espressione associativa attraverso la Caritas.
A quasi due mesi di distanza dagli eventi e con lo sguardo rivolto ai recenti sbarchi di profughi eritrei, somali, etiopi e libici, la situazione appare tutt’altro che pacificata e numerosi sono gli interrogativi che essa suscita. A partire da un elemento che non può passare inosservato: la non causale sovrapposizione tra la pianta dei centri aperti in questi mesi per gli uomini e le donne provenienti dalle rive meridionali del Mediterraneo e la mappa dell’agricoltura del nostro Mezzogiorno, bramosa di manodopera ricattabile ed a basso costo per la raccolta dei prodotti ortofrutticoli. Una constatazione che si accompagna alla convinzione che la vicenda si sia tutt’altro che conclusa con lo spegnersi dei riflettori.
*Paola De Pascalis è collaboratrice di Finis Terrae Onlus, Onlus attiva a Manduria
articolo tratto da: corriereimmigrazione.blogspot.com