giovedì 22 settembre 2011

“Memoria” di Salman Natur – Edizioni Q – Biografie, 8° (pagg. 97 – 99)

Da un passo del diario di quei giorni atroci,che i Palestinesi subirono:

(Dopo Auschwitz e Mauthausen, dopo Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, un’altra tragedia da non dimenticare: la Nakba.)

1948

Dove sono i tuoi giorni Abu Isaf?
Il vecchio, col rosario ciondolante tra le dita e gli occhi azzurri velati, lancia un profondo sospiro, raddrizza un po’ la schiena e indugia, come se volesse chiedere aiuto ad Abu Isaf:
  • Nel 1948, quando ci hanno espulso, bastava dire che venivamo da Hamiat Shab perché la gente ci
aprisse il cuore. Non abbiamo consegnato chiavi e non ne abbiamo preso in custodia. Abu Isaf se n’è andato, che Dio sia con lui. Lavorava alle ferrovie e andava da un posto all’altro, per raccogliere le cartucce delle pistole. Un giorno è venuto al villaggio con un fucile marca Tank Rifle, un vero cannone, che aveva una gittata di sette chilometri.
Abbiamo fortificato il paese, decisi a resistere. Birwa e Mi’ar sono cadute, ma il nostro paese ha continuato a resistere compatto. Si sono installati sui monti dirimpetto e hanno chiuso le strade, ci hanno circondato e hanno cominciato a sparare a tutto ciò che si muoveva: Hussein Ali Hamid che pascolava il gregge nel campo dei Marka, Mustafà Safi e Ahmad Arami che stavano scegliendo la verdura, Ahmad al-As’ad che stava curando alcune piante di tabacco nei terreni di Disa, la figlia di Abdalla Musa che coglieva le verdure nel terreno di Banana. Li hanno ammazzati. Ci davano la caccia, ci eliminavano a uno a uno.
Chi ancora? Moglie, aiutami a ricordare. Fatima, la sorella di Ahmad Abdallah stava raccogliendo fichidindia e Zahra Mussa che stava sul muretto, le hanno sparato ed è caduta davanti ai nostri occhi. Tutte ragazze nel fiore degli anni, tra i venti e i venticinque anni, non ancora compiuti. Abbattevano i nostri giovani come uccelli.
Ata Asadi, un giovane nel fiore degli anni.
Yahya As’ad, quindici anni, ucciso a Majd al-Kurum.
Mahmud Taha e Ali As’ad, figlio dello sheikh Muhammad, due dei ragazzi più belli del nostro paese, fucilati in mezzo alla strada, davanti agli occhi della gente.
Taceva, come se il racconto gli si fosse rappreso tra le labbra. Oscillando la testa, fissava il giovane trentenne che gli sedeva accanto e non si stancava di dirgli: - Caro, ti prego, racconta la tua storia,racconta.

Mi’ar


L’uomo che sedeva accanto al vecchio, aveva sei anni quando cadde Mi’ar. I bulldozer avevano raso al suolo il paese e gli abitanti erano fuggiti verso Majd al-Kurum, Ramish, Alam al-Shaab, o nella direzione opposta, attraverso sentieri tortuosi. I camion militari li prendevano e li buttavano a terra a Lajjun.
Nel mese di maggio di quell’anno, l’esercito era entrato nel paese e aveva espulso gli abitanti di Shaab, a parte qualche anziano e qualche donna. Gli espulsi hanno capito che, questa volta, la musica era diversa, che non si trattava di una lite tra paesi vicini e neanche del <<giorno della demolizione delle case>>, e sono tornati di nascosto a Shaab, passando per gli uliveti e i sentieri impervi del monte Arid.
Gli ulivi erano carichi: Uomini, donne e bambini siamo entrati a raccogliere le olive, a rubare nelle nostre proprietà! Nelle nostre terre! Un collaborazionista, arrivato in paese con la sua famiglia e le truppe dell’esercito, ci ha scoperto. Ci hanno raggiunto a Marj al-Ghuzlan, il “Prato delle Gazzelle”, e hanno cominciato a pestarci:
  • Signore, la prego….
Non ho detto altro.Avevo sei anni. Appena ho alzato le mani, un bastone ha martellato la mia schiena. Sentivo dolore dappertutto. Dopo ci hanno portato sull’aia, piena di orci colmi di olio, e spinto nel pollaio, dove siamo stati torturati a lungo, prima di farci uscire. Eravamo in quindici, quindici bambini.
Hanno circondato il villaggio e ci hanno ordinato di abbandonarlo. Ce ne siamo andati, con le poche cose che eravamo riusciti a caricare sul dorso degli asini. Avevamo appena raggiunto la vetta della montagna, quando hanno aperto il fuoco. La gente si è nascosta tra glòi alberi. Con noi marciavano anche mio cugino e il figlio dei nostri vicini. Mio padre gli ha raccomandato di fermarsi, ma i due ragazzi hanno proseguito. L’esercito li ha catturati all’ingresso del paese.
Mamma mia! Cosa no hanno fatto, senza alcuna pietà, a questi giovani nel fiore degli anni! La strada era piena di rovi, li hanno denudati, gettati a terra, obbligati a strisciare a pancia in giù, poi li hanno uccisi. Quando mi hanno sentito urlare <<Li hanno ammazzati! Li hanno ammazzati!>>, ci sono venuti addosso dall’altra parte, ci hanno legati, messi al muro e riempiti di botte. Con le mani in alto, piangevamo e gridavamo:
  • La prego, mister, la prego!
Abbiamo visto la morte con i nostri occhi. Vedevamo in ciascuno di loro quaranta uomini. E noi, cosa eravamo, noi?! Bambini di sei anni!
Gli anziani si erano messi a terra e le ragazze si imbrattavano il viso, perché avevano paura che le violentassero. Hanno incaprettato mio padre, sono uscito e ho cercato rifugio tra un gruppo di donne, una zia mi ha coperto col suo corpo, un soldato si è avvicinato di corsa e ha chiesto:
  • Dove, baby?
  • No baby, mister.
Continuavano a seguirci, quando al tramonto siamo arrivati a Majd al-Kurum.