Capitano squadra Palestinese Femminile Honey Thaljieh
Tifosi che acclamano la squadra Palestinese in casa nel nuovo stadio a Ramallah "Faisal Hussein"
La nazionale Palestinese prima di una partita
Novanta minuti giocati davanti al proprio pubblico e il passaggio al secondo turno in tasca. E' successo domenica a Ramallah,durante una partita di calcio che sa di storia.
A giocarsi la qualificazioni dei Mondiali di calcio Brasile 2014 è una squadra particolare perché ha una nazionale e non uno stato:la Palestina,l'unica tra i 208 membri della FIFA a non essere riconosciuta come stato sovrano dalle Nazioni Unite.
Ma lo sport è capace di abbattere le barriere molto prima della politica e della diplomazia.Domenica,a due passi dal Muro di separazione,le barriere sono state abbattute:a Ramallah la squadra palestinese ha giocato il ritorno del primo turno contro l'Afghanistan,nel nuovissimo stadio "FAISAL HUSSEIN ".E' finita 1-1,ma a passare al secondo turno preliminare delle qualificazioni è stata la Palestina,forte del 2-0 dell'andata.Ad attenderla ci sarà ora la Thailandia.
Ma dietro questa vittoria,dietro alla possibilità di giocarsi una qualificazione mondiale,dietro allo stadio di Ramallah nuovo di zecca,ci sono 63 anni di lotta per la liberazione.Fatta di due Intifada,di processi di pace,di marce pacifiche e disobbedienza civile.Un pallone di cuoio.ora,può trasformarsi in un nuovo ambasciatore."Quando la squadra viene a giocare nella nostra terra-ha detto all'agenzia di stampa The Associated Press il 26 enne Murad Ismael,giocatore della nazionale-è come se riconoscesse lo stato palestinese.Questo fa bene alla causa palestinese,non semplicemente lo sport".
Ne è convinto anche l'allenatore,Jibril Rajoub,58 enne ex capo della sicurezza in Cisgiordania,che ha trascorso 17 anni nelle poco confortevoli prigioni israeliane.
Da due anni capo della federazione Palestinese di calcio e del comitato olimpico,ha un obbiettivo:usare il pallone per inviare un messaggio al mondo intero."Noi siamo persone normali-ha detto a the associated press- lo sport è uno dei modi per ottenere la libertà della nostra nazione". Così è investire nel calcio nazionale,risollevando le sorti di un team inesistente:per anni il calcio in Cisgiordania ha vissuto in emergenza,senza organizzazione e bloccato dalle restrizioni al movimento delle imposte da Israele ai giocatori.
In pochi anni,sono arrivati soldi (da un budget di 870.000 $ annuali si è passati a 6.000.000),un nuovo stadio e funzionari in grado di mandare avanti amministrazione e burocrazia (da 3 dipendenti del 2008 agli attuali 30).
Non sono mancati i problemi che in Palestina si traducono in blocco alle frontiere.Per molto tempo la squadra è stata costretta a giocare in Giordania e Kuwait perché molti dei suoi giocatori venivano fermati al confine per motivi di "sicurezza" e rispediti indietro dalle autorità israeliane.Ma da Marzo la nazionale ha ottenuto il permesso di giocare in Cisgiordania ed ospitare così i match mondiali.
A rafforzare la squadra è arrivato anche un difensore dalla storia particolare.
E' Omar Jarun,papà Palestinese e mamma Americana,capelli biondi in mezzo alle chiome nere degli altri giocatori.Ha lasciato gli USA per unirsi alla compagine palestinese.
A 26 anni,è riuscito anche a visitare Tulkarem,la città dove è nato suo padre. "Da giovane il mio sogno era giocare per una nazionale-ha raccontato Omar alla CNN- e pensavo di entrare nella nazionale Americana.Non avrei mai immaginato di andare in quella Palestinese"."Conosco la mia storia,ma non sapevo cosa fare per il popolo Palestinese,a parte giocare a calcio.Così quando mi hanno offerto di giocare con la nazionale di Palestina,ho detto SI".
Una nazionale dalla storia travagliata:nel 1998 è stata riconosciuta dalla FIFA,ma con lo scoppio della 2° Intifada il campionato nazionale è stato cancellato e i giocatori Palestinesi non potevano uscire dal paese per i match all'estero.Oggi,le restrizioni continuano.E' il caso del difensore Abdel Latif Bahdari,Palestinese di Gaza,a cui più volte è stato negato di uscire dalla striscia.O di altri giocatori gazani a cui non è stato permesso di rientrare dopo aver giocato in Cisgiordania.
Ma a volte le restrizioni non arrivano solo da parte israeliana.A volte ci si mette anche la famiglia,convinta che il calcio sia uno sport solo maschile:poco onorevole per una donna mettersi in calzoncini e giocare a pallone.Ma le ragazze Palestinesi hanno imparato a resistere e il risultato è la fascia di capitano della nazionale femminile Palestinese che Honey Thaljied ha legato al braccio.
26 anni,laurea all'università di Betlemme,Honey ha trascorso anni a cercare di formare una squadra tutta sua, a dispetto dei divieti dei genitori. E oggi è in Germania,invitata in occasione del mondiale femminile di calcio,per alcune amichevoli. A 7 anni il suo unico desiderio era giocare a pallone coi maschietti del quartiere. "Sono stata la prima donna a giocare a calcio in Palestina.Al principio,nella mia famiglia non mi appoggiarono,le vicine di casa mi criticavano.Dicevano:"Quello non è un gioco da bambine.Nessuno si sposerà con lei".Ma Honey ha continuato di nascosto quando i suoi non la vedevano.
E dopo aver lottato tanto,ha trasformato in lotta anche il suo professionismo:"Per me,non si tratta ormai solo di calcio.Si tratta di cambiare la società.Molta gente crede che i Palestinesi siano tutte/i terroristi/e,che portano il velo,che si sposano presto ed hanno molti figli.Grazie al calcio si possono combattere tutti questi stereotipi. Il calcio è una lingua che tutti parlano".
Emma Mancini